Ciao a tutti, oggi vi presentiamo una novità! In occasione dell'inizio di questo nuovo anno, un membro del nostro gruppo, Luca Monacis, ci proporrà delle riflessioni spot più approfondite sugli argomenti che tratteremo durante il cammino. Augurandoci che la cosa vi sia gradita vi auguriamo una buona giornata e... CHE TUTTI SIANO UNO!!
p.s. fateci sapere nei commenti cosa ne pensate ;)
Mai come nelle situazioni di perdono siamo messi davanti a noi stessi, alla necessità di “guardare dentro”.
Cos’è il perdono? Qual’ è il tempo del perdono?
Non posso concepire il perdono senza il dolore: difatti ci troviamo di fronte alla scelta di dover perdonare qualcuno che ci infligge un dolore.
Tutti i più grandi maestri spirituali, di tutte le epoche, distinguevano due atteggiamenti che solitamente assumiamo verso il dolore: il primo, sano, è lasciarsi annientare, abbattere, sconfiggere, distruggere; il secondo, deleterio, consiste nel rimuginare, ripensare, chiedersi le cause, darsi le colpe, cronicizzando così il dolore.
È importante partire da un ragionamento: il dolore non è nostro nemico, anzi viene a purificarci da tutte quelle scorie negative prodotte dalle nostre illusioni, dalla nostra staticità; è come l’alcool che la mamma versa sulle ginocchia sbucciate del suo bambino, per sanare e curare quella ferita.
Il dolore è una funzione cosmica dell’anima.
Non è forse vero che spesso si suole dire “la sofferenza ci avvicina a Dio?
Non è forse vero che Qualcuno ha detto “se il chicco di grano caduto in terra non muore non produce frutto?”.
Se stiamo attenti, lui, il dolore (quello sano del primo tipo) viene a richiamarci da situazioni nelle quali stavamo percorrendo sentieri energetici scadenti.
Non posso concepire il perdono senza la rabbia: questa straordinaria forza interiore (quando è spontanea e non artificiale), questo lampo di elettricità, ha il potere di scuotere le fondamenta della nostra vita e riportarla verso direzioni più inclini alla nostra personalità; la rabbia ha il potere, con la sua energia auto-propulsiva, percuotente e corroborante, di farci “entrare dentro” per davvero, di farci visionare l’immensa vastità del nostro mondo interno che, forse, avevamo trascurato.
È come il mare in tempesta che “pulisce sé stesso” portando a riva tutti i detriti inutili.
Pensate alla reazione violenta e rabbiosa di Gesù nel tempio di Gerusalemme contro quel commercio, quella idolatria del danaro, quella produzione sconsiderata di “fango”, fango dello spirito.
Viene a dirci, la rabbia, che abbiamo il diritto di essere rispettati, di non vergognarci di noi stessi.
Una sincera manifestazione di rabbia produce immediatamente la pace.
Una sana rabbia produce umiltà; se non sappiamo arrabbiarci non sapremo mai essere veramente umili.
Non posso concepire il perdono se mi dico quando, come e in che misura perdonare: il perdono non appartiene al tempo ma sgorga dal profondo, dal “senza-tempo”.
Valutazioni postume sulla persona che ci ha fatto male, sul nostro comportamento futuro in sua presenza, sul valore che gli attribuiremo domani, sono ragionamenti che non appartengono al perdono.
Ragionamento e perdono sono inconciliabili.
Perdonare significa riabilitare la fiducia degli altri e la loro reputazione ai nostri occhi.
Il perdono si nutre di silenzio, del silenzio delle nostre opinioni.
Chi perdona ma esprime opinioni (specie se negative) sulla persona in questione, non ha realmente perdonato.
Il perdono, come detto, ci mette dinnanzi alla necessità di guardarci dentro, sorge allora spontanea una domanda: dove vogliono farmi guardare questi moti, queste sensazioni contraddittorie di dolore, rabbia e perdono? e se fosse lo Spirito? non pago della vita che stiamo vivendo?
Il perdono ci permette di osservare la profondità della nostra relazione con Dio; il perdono nasce dalla contemplazione dell’agire di Gesù durante la Sua Passione: il Suo abbandono al dolore ed alla fiducia nel Padre, la Sua totale assenza di giudizio o lamentele verso i carnefici.
Sembra che Gesù non abbia mai detto “perché a me? Perché Dio, proprio a me?”.
Non è una questione filosofica, è questione di spostare l’attenzione sul significato profondo del perdono, cioè di mettere il cervello in uno stato dove produce spontaneamente le sostanze della pace e del benessere.
Perdonare gli altri significa infine perdonare sé stessi; “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, significa “se perdonerai agli altri, ti concederai il diritto di vivere meglio”; uno stato di rancore (che è molto diverso dalla “rabbia-fulmine”) prolungato mette il cervello in un continuo stato di ansia ed il corpo in un perenne andirivieni di “fastidi” psicosomatici.
Perdonare sé stessi significa riabilitarsi alla vita.
In conclusione: Se non ti abbandoni al dolore non progredisci, se non “ascolti” la tua rabbia starai male, se farai entrambe queste cose ma non perdonerai, non potrai entrare nella pienezza della vita.
E allora forse, forse, potremo davvero perdonare “fino a settanta volte sette”, potremo davvero avere “gli stessi sentimenti che erano di Cristo Gesù”.
p.s. fateci sapere nei commenti cosa ne pensate ;)
Mai come nelle situazioni di perdono siamo messi davanti a noi stessi, alla necessità di “guardare dentro”.
Cos’è il perdono? Qual’ è il tempo del perdono?
Non posso concepire il perdono senza il dolore: difatti ci troviamo di fronte alla scelta di dover perdonare qualcuno che ci infligge un dolore.
Tutti i più grandi maestri spirituali, di tutte le epoche, distinguevano due atteggiamenti che solitamente assumiamo verso il dolore: il primo, sano, è lasciarsi annientare, abbattere, sconfiggere, distruggere; il secondo, deleterio, consiste nel rimuginare, ripensare, chiedersi le cause, darsi le colpe, cronicizzando così il dolore.
È importante partire da un ragionamento: il dolore non è nostro nemico, anzi viene a purificarci da tutte quelle scorie negative prodotte dalle nostre illusioni, dalla nostra staticità; è come l’alcool che la mamma versa sulle ginocchia sbucciate del suo bambino, per sanare e curare quella ferita.
Il dolore è una funzione cosmica dell’anima.
Non è forse vero che spesso si suole dire “la sofferenza ci avvicina a Dio?
Non è forse vero che Qualcuno ha detto “se il chicco di grano caduto in terra non muore non produce frutto?”.
Se stiamo attenti, lui, il dolore (quello sano del primo tipo) viene a richiamarci da situazioni nelle quali stavamo percorrendo sentieri energetici scadenti.
Non posso concepire il perdono senza la rabbia: questa straordinaria forza interiore (quando è spontanea e non artificiale), questo lampo di elettricità, ha il potere di scuotere le fondamenta della nostra vita e riportarla verso direzioni più inclini alla nostra personalità; la rabbia ha il potere, con la sua energia auto-propulsiva, percuotente e corroborante, di farci “entrare dentro” per davvero, di farci visionare l’immensa vastità del nostro mondo interno che, forse, avevamo trascurato.
È come il mare in tempesta che “pulisce sé stesso” portando a riva tutti i detriti inutili.
Pensate alla reazione violenta e rabbiosa di Gesù nel tempio di Gerusalemme contro quel commercio, quella idolatria del danaro, quella produzione sconsiderata di “fango”, fango dello spirito.
Viene a dirci, la rabbia, che abbiamo il diritto di essere rispettati, di non vergognarci di noi stessi.
Una sincera manifestazione di rabbia produce immediatamente la pace.
Una sana rabbia produce umiltà; se non sappiamo arrabbiarci non sapremo mai essere veramente umili.
Non posso concepire il perdono se mi dico quando, come e in che misura perdonare: il perdono non appartiene al tempo ma sgorga dal profondo, dal “senza-tempo”.
Valutazioni postume sulla persona che ci ha fatto male, sul nostro comportamento futuro in sua presenza, sul valore che gli attribuiremo domani, sono ragionamenti che non appartengono al perdono.
Ragionamento e perdono sono inconciliabili.
Perdonare significa riabilitare la fiducia degli altri e la loro reputazione ai nostri occhi.
Il perdono si nutre di silenzio, del silenzio delle nostre opinioni.
Chi perdona ma esprime opinioni (specie se negative) sulla persona in questione, non ha realmente perdonato.
Il perdono, come detto, ci mette dinnanzi alla necessità di guardarci dentro, sorge allora spontanea una domanda: dove vogliono farmi guardare questi moti, queste sensazioni contraddittorie di dolore, rabbia e perdono? e se fosse lo Spirito? non pago della vita che stiamo vivendo?
Il perdono ci permette di osservare la profondità della nostra relazione con Dio; il perdono nasce dalla contemplazione dell’agire di Gesù durante la Sua Passione: il Suo abbandono al dolore ed alla fiducia nel Padre, la Sua totale assenza di giudizio o lamentele verso i carnefici.
Sembra che Gesù non abbia mai detto “perché a me? Perché Dio, proprio a me?”.
Non è una questione filosofica, è questione di spostare l’attenzione sul significato profondo del perdono, cioè di mettere il cervello in uno stato dove produce spontaneamente le sostanze della pace e del benessere.
Perdonare gli altri significa infine perdonare sé stessi; “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, significa “se perdonerai agli altri, ti concederai il diritto di vivere meglio”; uno stato di rancore (che è molto diverso dalla “rabbia-fulmine”) prolungato mette il cervello in un continuo stato di ansia ed il corpo in un perenne andirivieni di “fastidi” psicosomatici.
Perdonare sé stessi significa riabilitarsi alla vita.
In conclusione: Se non ti abbandoni al dolore non progredisci, se non “ascolti” la tua rabbia starai male, se farai entrambe queste cose ma non perdonerai, non potrai entrare nella pienezza della vita.
E allora forse, forse, potremo davvero perdonare “fino a settanta volte sette”, potremo davvero avere “gli stessi sentimenti che erano di Cristo Gesù”.