Ciao a tutti! Innanzitutto ci scusiamo per la nostra assenza, dovuta a vari impegni del gruppo che hanno riempito le nostre giornate impedendoci di essere concentrati sul blog.
Finalmente ci siamo, eccoci! Pronti a raccontarvi nuove esperienze e a donarvi nuove meditazioni ed emozioni!
Iniziamo subito con una meditazione di Luca Monacis, che come sapete è un membro attivo del nostro gruppo, su un tema tanto sentito quanto, purtroppo, dimenticato: LA SALVEZZA.
Buona lettura! :)
Il nome Gesù deriva dall’aramaico Yeshua e significa “YHWH è
salvezza” (YHWH è la traslitterazione del tetragramma biblico riportante
secondo gli Ebrei il nome di Dio).
Il tema della Salvezza è uno dei pilastri
fondamentali della Cristianità, sicché nei Vangeli e nelle Lettere degli
Apostoli ricorre incessantemente l’invito alla conversione, conversazione per
ottenere la salvezza.
Ma Salvezza da chi, da cosa? E perché?
Negli ultimi
periodi si è andata affermando un’idea profondamente infantile della religiosità
in genere, in particolare di quella cristiana.
Questa idea pone eccessivamente
l’accento su una direzione orizzontale, una semplicistica esperienza sociale,
dove più o meno ci si deve voler bene, essere tutti amici, fare qualche
“fioretto” sporadicamente, compiere buone azioni verso i poveri, essere parte
di un qualche gruppo, organizzare eventi di “evangelizzazione” (le virgolette
sono d’obbligo), eccetera.
Si entra cioè nella casa del luogo comune, un
insulso coacervo di stereotipi folkloristici seguiti pedissequamente, senza
l’assunzione della minima consapevolezza.
Chi è Gesù Cristo?
Gesù Cristo è
stato tutto fuorché un adoratore di luoghi comuni, anzi è possibile affermare
che durante i tre anni di vita pubblica non esitò a dichiarare il Suo aperto
disprezzo per tutto ciò che fosse banale.
Una religiosità meramente sociale è
una religiosità scadente.
Un Cristianesimo fatto di luoghi comuni è un
Cristianesimo mediocre.
La religiosità deve senz’altro comporsi della
dimensione umana, ma anche della dimensione escatologica; non può esistere
l’una senza l’altra e porre l’attenzione solo sulla prima rischia di
trasformare il tutto in un cabaret di pessimo gusto, uno scimmiottamento di
personaggi e vicende storiche.
No. La religiosità deve nutrirsi d’inaccessibilità,
d’incenso, di un fine ultimo.
Deve nutrirsi di presente nell’Eterno e di Eterno
nel presente.
Il Cristianesimo ha un fine: il Paradiso.
Il Paradiso è
null’altro che stare alla presenza di Dio.
Dio viene a salvarci da una e una
cosa sola: l’Inferno.
Là, dove arti vengono strappati e fumo e ombre coagulano
in una materia pestilente e oscura che si cosparge nello spazio soffocando lo
spasmo della vita, la quale annaspa invano alla ricerca di un po’ di sollievo.
Il fumo carico di zolfo penetra nelle narici, fa lacrimare gli occhi, inquina i
polmoni, blocca il respiro, fiacca le forze.
Il libro dell’Apocalisse descrive
l’Inferno come la “seconda morte”, in altre parole la morte dopo la morte,
fermandosi su un’immagine da brividi: lo “stagno di fuoco”.
L’Inferno dunque è
una palude: in una palude non ci si può muovere, l’aria è irrespirabile, è
buio; ma è una palude particolare perché pervasa da un fuoco inestinguibile, un
eterno inenarrabile annichilimento dove l’anima brucia e al contempo affoga, in
un’atmosfera raccapricciante.
Non si può negare il fascino straordinario delle
immagini evocate da Dante nella Divina Commedia, dove si può scorgere la
grandiosità dell’Inferno e non poteva essere altrimenti; l’Inferno si è
originato in opposizione alla grandiosità per eccellenza, Dio.
Esattamente come
diceva il padre della fisica moderna, Isaac Newton, “a ogni azione corrisponde
una reazione uguale e contraria”, così la Somma Bruttezza non poteva che
derivare, per contrarietà, dalla Somma Bellezza.
L’Inferno non è un luogo
fisico, bensì uno stato; quante volte nella vita di tutti i giorni ci si trova
a vivere stati simili, nei quali ci si sente intrappolati, in un’aria
pestifera, in un costante stato di tormento interiore, nella convinzione che
non passerà mai.
L’Inferno è disperazione, assenza di speranza.
È uno stato che
si sperimenta nella vita ed è possibile immaginare come questo prosegua anche
nell’aldilà, per coloro che nel corso della loro esistenza avranno scelto
l’inferno anziché il paradiso.
Come si manifesta l’Inferno?
Basta leggere i
vari nomi attribuiti a chi per primo ha scelto l’Inferno, il “principe delle
tenebre”, lo “’mperador del doloroso regno”.
La parola Diavolo (dal greco e poi
dal latino) significa “divisore”, ”accusatore”, Satana (dall’ebraico Satàn)
significa avversario; costui (in Isaia) ama pronunciare le seguenti parole
“Sarò simile all’Altissimo”; San Giovanni ne parla come di un “leone ruggente”.
Quando sentiamo nel nostro cuore l’accusa, la divisione, una forza che ruggisce
e che ci fa dire “Dio non c’è”, “Io sono Dio”; quando sentiamo che tutto ci
spinge ad ammettere che questo sarà uno stato immanente, ecco; questo è
l’inferno.
Per quale motivo accade tutto ciò? Nessuno.
Il Male è puro annientamento,
distruzione insensata; il Male odia tutto, anche se stesso.
Ricordarci che
dietro ogni azione, ogni scelta, ci sono inferno e paradiso (già sperimentabili
su questa terra), ricordarci che la nostra esistenza non è solo un consumare il
tempo, ma ha in sé una funzione cosmica, ci evita di diventare persone frivole
recuperando la completezza e il senso delle cose.
L’antitesi tra bene e male ci
rende spettatori estasiati di quel grande spettacolo che è il mondo “delle
regioni celesti”: continui cambi di fronte, emozioni contrastanti, scenari
spettacolari (si pensi ad esempio al Giudizio Universale di Michelangelo),
fallimenti, vittorie, delusioni, speranze. Guardare il mondo con questi occhi
colora la vita e dà senso alle nostre scelte, al nostro libero arbitrio.
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